di Davide Tartaglia
L’esserci, l’accadere della poesia, dell’ ‘evento poetico’ è sempre l’accadere di un miracolo. Come ci suggerisce l’origine del termine poiéin, nel suo significato greco originario, la poesia è l’atto del creare, del mettere in essere, ed è dunque legata a doppio filo con il lavorio del poeta, con il labor limae, ma senza l’accadere di quella luce nuova, capace di attraversare il corpo delle cose e uscirne investita dal senso la poesia rimane puro mestiere, gioco.
I versi di Umberto Fiori, interamente raccolti dall’antologia da poco uscita per la Mondadori, appaiono impastati senza soluzione di continuità con questa luce. Una luce che passa attraverso tutta la sua produzione poetica modulando ombre, chiaroscuri, tonalità differenti ma solcando comunque un percorso unitario ed omogeneo. Un’ansia di vita, di nudità, un urgenza di ricongiungimento con il mondo, le cose e ultimamente con sé stessi che solca ogni pagina. La luce di cui si sta parlando non è quella dei riflettori, non è la luce da palcoscenico capace di fingere il giorno laddove è notte e buio pesto ma di una luce media, discreta, fragilissima che però è l’unica capace di attraversare il mondo con la sua oscurità e svelarne il cuore luminoso, pulsante, il nodo irrisolto. In questo senso si può affermare che la poesia di Fiori è davvero un miracolo: è il miracolo del quotidiano, della normalità, dello straordinario dentro l’ordinario, che può essere colto solamente da colui che perde tutte le bravure, solo da chi si abbandona senza difese all’avvenimento che si svolge davanti ai suoi occhi.
Giorno e notte, qua sotto,
partono e arrivano i vagoni.
Al vento nero delle gallerie
Sbattono giacche e giornali.
Si aprono le porte, si chiudono.
Facce, sedili, borse:
nasconde tutto, l’illuminazione.
Ma basta che sulle scale del mezzanino
Spunti in mezzo alle scarpe un piede nudo
– un alluce, un tallone stretto in un sandalo –
e tu risenti addosso, come l’evaso
il faro che lo stana, la luce del mondo.
In questa poesia, da “Tutti”, possiamo estrapolare il topos formale e contenutistico di tutta l’opera di Fiori, la vera cifra stilistica. La scena iniziale è, come spesso accade, quella urbana. Una città senza alcuna determinazione spazio-temporale, è ‘la’ città, la nostra città, da Palermo a Milano, ed è colta nella sua fredda routine, in questo continuum muto e anestetizzante dove ci sono solo vagoni che arrivano e vanno. Nonostante la chiarezza estrema della scena presentata, in realtà c’è un illuminazione che nasconde tutto, una luce che non permette di vedere oltre: le facce sono solo facce, i sedili solo sedili, le borse solo borse. In questo flusso continuo e indistinto, nella poesia di Fiori, improvviso ed imprevisto, si introduce sempre un fatto, apparentemente banale, un guasto, una contraddizione che spacca a metà l’istante, che innesca la crisi. E’ facilissimo rintracciare nei versi del poeta di Sarzana il ‘ma’, può essere catastrofico a volte, però diventa il grimaldello per schiudere lo scrigno del reale, la chiave di lettura di sé stesso e del mondo: risenti addosso, come l’evaso il faro che lo stana / la luce del mondo.
Si capisce allora come il miracolo è certo l’accadere di un fatto imprevisto che capovolge le sorti del quotidiano, ma il miracolo decisivo avviene soprattutto nell’atto del guardare del poeta, per cui, le solite cose, acquistano una profondità, una verticalità nuova e avviene il liberante disvelamento. Disvelamento dell’Essere del quale la scena messa in atto non sembra responsabile se non nel fatto di esserci e l’unico compito del poeta è lentamente scomparire, farsi diafano perché emerga il dato in tutta la sua complessità. La verità emerge dunque dal non-detto, dal semplicemente accennato che sfida la libertà del lettore a riconoscerla oppure a rifiutarla.
Quest’ultima dinamica di scelta coinvolge anche lo stesso autore per cui a volte la realtà nuda e pura è occasione di riscatto, di liberazione, mentre altre è percepita come nemica e coercitiva. Questa drammaticità è evidente soprattutto in riferimento al rapporto del poeta con le persone, con il mondo, che possono essere il punto di svolta in questo percorso di rivoluzione dello sguardo (se all’angolo una signora […] parla proprio a me / sento le piante crescere, sento la terra / girare. Tutto mi sembra forte e chiaro, tutto / deve ancora succedere) e molto spesso sono invece avvertite come la minaccia dalla quale difendersi (prima o poi / mi sento mordere dentro un veleno, / un’ ombra, un dispiacere. / Siete voi). Da questo dramma vertiginoso (non basta ancora? Quando / mi prenderete? / potrò essere mai / dalla vostra parte?), perennemente in bilico tra queste due possibilità, nasce lo stupendo poemetto Voi.
La poesia di Fiori è dunque questo continuo e instancabile accostarsi, come se le immagini fossero approssimazioni infinitesimali, tentavi di dire, di mettere in scena l’inesprimibile, certi che, come ci dice ‘montalianamente’ il poeta in Tutti: non c’era niente al mondo che non sembrasse / un segnale. Questa è la tensione costante che percorre la parola poetica, questo rimanere sempre sull’argine, sul limitare della promessa che il reale introduce, sulla soglia dell’indicibile che rimane sempre solamente suggerito, sussurrato, come una luce zenitale che trapassa le persiane e si ferma sulle cose: non dice le cose, le fa dire: “ mentre le cose / ti vengono nella voce / e ti scaldano, più le ascolto / più sento come sei via. / E anch’io, anch’io sono là. / Siamo così. Siamo quello che manca / in tutte le spiegazioni”.
Questa ricerca instancabile, questa stoico osservare in una fiducia e domanda totale alla realtà, quasi come una preghiera, ha un interlocutore costante nelle poesia di Fiori: le case. Case è il lapidario titolo della sua prima raccolta, ma è un immagine che non abbandonerà più il poeta perché più grande di tutto è lo sguardo, ma le case sono più grandi. Le case, i palazzi sono colti sempre in questa totale alterità, fedelmente radicate a terra e diventano il volto della città con cui Fiori è continuamente in dialogo in una ricerca commovente di contatto, di coinvolgimento. In questo senso assume un senso anche lo scavo, luogo dello sviluppo della città, alveo di una futura casa, come simbolo di memoria di ciò che siamo, di ciò che diventeremo, di quello che possiamo essere.
Questo compimento, diventare chiari e fondati, come le case, avviene non senza dramma, ma attraverso una lotta quotidiana che è quella del chiarimento. In Chiarimenti Fiori sente gravare su di sé tutto il peso di un’incomunicabilità tra gli uomini, tra sé e le cose, avverte tutta la pesantezza della miseria dello sforzo umano nel tentativo di costruire un contatto, una comprensione che sia veicolo anche di un messaggio condiviso:
Solo, è: come se l’italiano / di colpo, al mondo, / non lo sapesse nessuno.
E intanto se lo sente, il mondo, / proprio qui, / sulla punta della lingua.
[…]
A furia di gridare / e di farsi vedere / spera di nascere.
Ma la rinascita, il canto, è comunque qualcosa sempre di non riconducibile unicamente al proprio sforzo titanico, accade: Come al circo al momento del trapezio / viene un silenzio / uno canta.
La poesia, la ricerca dentro la parola poetica di Fiori è tutta tesa a raggiungere l’altezza di questo canto che scardina la parola dalla sua banalità, la violenta quasi, per strapparla dal pantano dell’insignificanza e farla diventare, finalmente, Parola. Una parola che esige il silenzio. Questo avviene dentro un cammino di purificazione di sé stessi e della parola poetica, come ci dice lo stesso Fiori in un’intervista del 2006 rilasciata a Pordenonelegge: “Verso i trent’anni, quando già avevo scritto parecchio (senza decidermi a pubblicare), un certo modo di fare poesia – quello che punta sull’allusione, sull’obliquità, sull’ellissi, sul primato del significante – ha cominciato a nausearmi un po’. Ci sentivo dentro un di troppo di letteratura, di estetica, e anche – come dire – un trucco. Ero stanco della poesia scritta per gli iniziati, per i critici, se non per i poeti stessi. Se la poesia è questo esercizio di stile, di finezza letteraria, mi dicevo, allora non mi interessa; o ci sono delle cose da dire, un senso da mettere in gioco, oppure tanto vale lasciar perdere. Così mi sono messo sulle tracce di quella che chiamavo la mia “parola normale”. Pensavo a una poesia il più possibile chiara, che non bara, che si sforza di essere fedele al mondo, alle cose. Il mio lettore ideale non era (non è) uno che di poesia se ne intende: era (è) una persona capace di ascoltare quello che un altro ha da dirle, di confrontare con la sua la propria esperienza, senza troppi filtri estetico-letterari”.
La parola di Fiori è dunque una parola che decide di spogliarsi di qualsiasi orpello, rovello formalistico a favore di un nitore, di un’ ostinata semplicità che lascia, a volte spiazzati e spessissimo disarmati. Proprio quel disarmo necessario per poter, finalmente, vedere il mondo e la grazia che lo accoglie. La ricerca intorno alla parola non procede in orizzontale ma preferisce la direzione verticale, alla ricerca di ciò che c’è nell’abisso: Più il vento mi spingeva verso il largo / più m’incantavo a cercare / la luce del fondo.
Il processo descrittivo di Fiori avviene per sottrazione, una minuziosa e rigorosa scelta della parola affinché non si sovrapponga al reale, quasi a voler ricavare un vuoto, uno scavo in cui avvenga l’implorata epifania. Sembra essere questo l’unico compito e responsabilità possibile del poeta, la realtà infatti continuamente ci supera, contiene in sé un mistero che sgorga senza interruzioni dalle origini e che la parola, il termine, per la sua limitatezza costitutiva non può interamente comprendere. Anzi, il poeta è proprio colui che guarda con tremore quest’ insufficienza della parola, di qualsiasi spiegazione e accordo puramente umano:
Parlano come se con una frase / si potesse davvero dare e togliere / legare e sciogliere e mettere bene in chiaro / tutto, una volta per sempre; / come se si trattasse di trovare / un accordo / e poi nessuno potesse mai più / parlare di questo e di quello.
Rimane dunque un disincanto nei confronti della parola che però non riesce ad abbattere definitivamente la speranza che la realtà, prima o poi, si conceda nella sua verità, nella sua interezza:
Non sogni anche tu che le cose / finalmente si lascino dire chiare, / si lascino chiamare / col loro nome / e diventino vere?
E’ questo, forse, il centro della forza dirompente che si sente dentro la poesia di Fiori, seppur nei suoi versi piani e regolari: l’accenno del vero, sulla punta della lingua, una chiarezza pronta a deflagrare da un momento all’altro nella quotidianità delle scene messe in atto. Una quotidianità, una normalità che anela l’eterno.
“Io penso alle mie scene urbane come a delle formelle di cattedrale, dove le figure mostrano ciò che avviene in un tempo che sempre è.” (Umberto Fiori).
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