di Giuseppe De Rosa
“Quasi un dimenticato”: così lo scrittore friulano Carlo Sgorlon (1930 – 2009) definiva Ugo Betti nel 1984, quando il trentennale della morte del drammaturgo camerinese era ormai trascorso in un surreale silenzio serbato sia dalla comunità nazionale delle lettere che dalla sua città natale – esclusi un piccolo convegno organizzato dai giovani di un circolo culturale nell’aula degli Stemmi del palazzo ducale e una tavola rotonda promossa dal comune, dove ad effetto Leonardo Sciascia volle definirlo scrittore di trame poliziesche… –. Oggi che di anni ne sono trascorsi più o meno altrettanti quel titolo dovrebbe fare a meno dell’avverbio “quasi”. Ugo Betti è un dimenticato. Stop. Non staremo qui a indagarne le amare ragioni, doppiamente dolorose con riguardo alla società delle lettere e al decadimento culturale del suo luogo natio. (Ma riteniamo doveroso citare l’impegno di un pool di giovani studiosi maceratesi afferenti alla facoltà di lettere di quell’ateneo, guidati dal prof. Alfredo Luzi).
Vorremmo oggi ricordare, consapevoli che nessun Prometeo sarà in grado di portare scintille a questa causa, alcune ricorrenze bettiane del 2012. Tre d’esse riguardano la poesia: novant’anni dalla prima raccolta, Il re pensieroso (1922), ottanta da Canzonette – La morte (1932), settantacinque da Uomo e donna (1937). Va qui detto che Betti è poeta anche se scrive in prosa, anche nelle scansioni del linguaggio teatrale: è insieme il suo limite e il suo pregio. bettiano Ma della poesia bettiana e di queste tre opere ci ripromettiamo di tornare in altra occasione. Noi intendiamo invece parlare ora di prime rappresentazioni, dagli ottantacinque anni de La donna sullo scudo (1927), ai settantacinque di Una bella domenica di settembre e I nostri sogni (1937), ai settanta de Il paese delle vacanze e Notte in casa del ricco (1942). Opere minori, le definisce la critica, commedie esitanti – com’è tipico di Betti – sul confine del dramma, venate come sono – pensiamo ad esempio a Una bella domenica di settembre – da una percettibile malinconia che fa da sfondo a tutta l’azione scenica.
La donna sullo scudo (1927), scritta in collaborazione con il giornalista e scrittore Osvaldo Gibertini (1892 – 1938) è l’opera meno nota di Betti, probabilmente poco apprezzata dallo stesso autore, fatta oggetto di un tagliente giudizio da parte del letterato e critico Marco Praga (1862-1929), figlio del più noto poeta Emilio, che assistette all’ultima replica milanese. Rappresentato la prima volta l’1 febbraio 1927 a Roma dalla compagnia della celebre attrice russa dell’epoca Tatiana Pavlova (1893 – 1975), il dramma ebbe breve vita, giacché dopo la replica al “Manzoni” di Milano del 2 marzo successivo non venne più riproposto al pubblico. Vi si narra dell’intricata storia di un rivoltoso di nome Rosso, di una meretrice di nome Palma e di un re sconosciuto, i quali, insieme, dopo varie e strampalate vicende, bruceranno tra le fiamme della reggia. A conferma che La donna sullo scudo viene citata nell’opera bettiana solo per completezza, è anche il fatto che si tratta dell’unico dramma escluso dai tre volumi contenenti il teatro di Ugo Betti, curati in parte da Silvio D’Amico e tutti da Achille Fiocco, pubblicati dall’editore bolognese Cappelli (i primi due nel 1955 e il terzo, Teatro completo, nel 1971).

Sergio Tofano in una scena di "Una bella domenica di settembre", rappresentato per la prima volta nel 1937 a Genova
Una bella domenica di settembre (1937), al contrario, risulta una delle pièces teatrali “minori” di Betti più rappresentate, tanto da conoscere anche due edizioni Rai, una televisiva e l’altra radiofonica. Fu rappresentata la prima volta al teatro “Margherita” di Genova il 7 dicembre 1937 dalla compagnia di Evi Maltagliati e Sergio Tofano, nel cui cast era presente anche un altro attore destinato a diventare celebre, Ernesto Calindri (1909 – 1999). La scena è ambientata in una bella domenica di settembre, di pomeriggio, in un giardinetto davanti all’ufficio di prefettura, dove in lontananza si odono festive musiche di una giostra. Una signora, Adriana (quarantenne, bellissima), si siede, sola, su una panchina, ad ascoltare i motivi delle canzonette, mentre i suoi figli, Roberto e Lia, se ne vanno ai loro svaghi, e attende che il marito (Federico Norburi, consigliere distrettuale) finisca di presiedere a una importante, imprevista riunione. D’un tratto le si avvicina un giovanotto dal volto stralunato, con gli occhiali e i capelli irti, che, a causa di una sua presunta e assai oscura malefatta, sta per essere licenziato dall’incarico di vicearchivista avventizio in prova presso la prefettura. Carlo Lusta (è il nome del giovane) invita, inspiegabilmente, la signora ad andare in sua compagnia alla “Riva delle ninfe”, un localetto di cattiva fama sulla sponda del lago, ritrovo e rifugio delle coppiette (lecite e illecite) in cerca di quiete e d’amore. Adriana, sulle prime, rifiuta, ma, alla fine, il pensiero della giovinezza che va fuggendo e quello della noiosa, monotona vita familiare e quell’altro, più grave, della fiacchezza dell’amore coniugale da parte del marito, la invogliano ad accettare l’ardita quanto compromettente proposta. I due, ridendo, insieme s’avviano. Alla “Riva delle ninfe” Carlo e Adriana si divertono un mondo chiacchierando del più e del meno, guardandosi attorno e pettegolando. Stanno per gustare un costosissimo vino, quando nasce, tra le risa e le grida, uno scandaletto: la “pietra” è, quale combinazione, propria Lia, la figlia della signora in incognito, qui capitata a far l’amore sotto la discreta ombra dei pergolati, con il suo aspirante fidanzato. A questo punto, si potrebbe pensare che lo scandalo assuma proporzioni preoccupanti, per l’inscusabile presenza della madre nello stesso equivoco locale. Non è così: tutti sono infatti convinti che Adriana sia giunta in compagnia del marito, accorso nel frattempo insieme al collega Linze, in cerca della figlia. La signora Adriana, a difesa della scappatella di Lia, si prova generosamente a dichiarare infinite volte che anche lei, sua madre, s’era recata alla “Riva delle ninfe” e ogni volta il marito e il figlio le rinchiudono la bocca con parole di tenerezza e d’ammirazione per la sua sollecitudine salvatrice. Che cosa resta dunque della bella, insospettata e insospettabile quarantenne? Accettare i fatti compiuti: combinare le nozze fra Lia e il corteggiatore di Lia; e, per suo conto, rientrare nell’ordine domestico a cui la condanna la sua virtù, licenziando con un bacio materno il corteggiatore suo, e preparandosi ad assumere per domani il suo ruolo definitivo, di nonna.

Una scena de "I nostri sogni", rappresentata nel 1942 al teatro Valle di Roma dalla compagnia Tofano-De Sica-Rissone
I nostri sogni (1937) conobbe la sua prima rappresentazione al teatro “Regio” di Parma il 7 novembre 1937 su allestimento della compagnia di Rina Morelli e Memo Benassi: al favore con cui fu accolto dal pubblico seguì addirittura il trionfo del 20 marzo 1941 all’”Olimpia” di Milano, quando venne messo in scena dalla compagnia Tofano-Rissone-De Sica, con entusiastica recensione de “Il corriere della sera” col suo celebre critico Renato Simoni (1875 – 1952). Leo, giovane, spiantato, incerto tra l’appetito e la prigione, amico di uno scarcerato, ricerca invano un posto. Siccome nella città dove conduce la sua “miseria emaciata e sorridente” si è aperta la succursale di una grande e famosa ditta, si presenta al direttore Posci, insistendo per essere assunto insieme col suo amico o perlomeno per avere un prestito di cento lire. Il signor Posci naturalmente lo mette ripetutamente alla porta, ma Leo non si dà mai per vinto. Sfacciatamente ritorna, più petulante di prima. Ora avviene che il signor Posci riceve in dono da un giornalista, che egli aveva condotto a visitare i nuovi locali della ditta, due posti per il teatro “Apollon”. Non sapendo che farsene, li offre a un vecchio impiegato, Ladislao Moscopasca, ma non avendo questi l’abito da sera, il direttore gli manda per accompagnare la figliola Matilde, Leo, che si presenta come figlio del proprietario della ditta… Matilde ha sempre avuto il desiderio di cenare all’osteria del Gelsomino, su in alto, sopra la città, dove s’affolla il pubblico elegante. Perché non si va al Gelsomino? E Leo è ben felice di condurcela. Ora vuole donare a tutti un po’ di felicità. Così bello e così facile. E al signor Moscopasca promette un posto direttivo nella ditta e alla signora un nuovo appartamento nel quartiere delle ville e a Matilde una serata meravigliosa. L’arrivo del signor Posci minaccia di guastare tutto. Ma siccome è lui la causa dell’abuso del nome del proprietario, è disposto a qualunque sacrificio pur di far scomparire Leo al più presto. Ma Leo non gli chiede che una cosa: un oggetto della sua ditta, un diadema di latta, ma che brilli come fosse autentico. Poi, presa Matilde per mano, se ne va con lei, come nelle fiabe, verso il giardino incantato. Quando il signor Posci ritorna – e con lui e anche il proprietario della ditta che, informato della storia, bizzarra com’è, ci si diverte –, non trova più nessuno. E allora entrambi proseguono per l’osteria del Gelsomino a portare a Leo il diadema di latta. Lassù all’osteria del Gelsomino, Leo è sulle spine. Senza denari, vede il conto ingrossare. Tassì alla porta, fiori, caviale, aragosta: i prìncipi delle fiabe, per mettere alla prova le fanciulle innamorate, dicono la stessa bugia. E allora Leo s’irrita contro la testolina di Matilde tutta piena di falsi ori, e la vuole richiamare alla realtà e farle capire quanta bellezza la realtà racchiuda. Anche il signor e la signora Moscopasca, sopraggiunti, hanno rinunciato ai mirabolanti miraggi creati loro dinanzi dalla prodigalità inventiva di Leo. E il vecchio proprietario della ditta, indulgente al tiro del giovanotto, gli domanda se gli è riuscito davvero di donare la felicità al prossimo. No, non gli è riuscito, ma gli è riuscito di far comprendere che la felicità sta nel saper apprezzare i doni che la vita offre a ciascuno, perché ciascuno se li conquisti. Nella conquista è la felicità.

Una scena di "Notte in casa del ricco", rappreSentata nel 1942 al teatro "Eliseo" di Roma dalla compagnia
Il paese delle vacanze (1942) fu messo in scena la prima volta il 20 febbraio 1942 al teatro “Odeon” di Milano dalla compagnia Tofano-Rissone-De Sica e riscosse grande successo; una seconda edizione – quando Betti era già morto da due anni – fu allestita al “Nuovo” di Trieste nel 1955 con pari fortuna. Nello stesso anno, tradotto in inglese, fu rappresentato a Glasgow e Londra: “Un cordiale, lieto successo”, titolò la stampa d’Oltremanica. L’azione si svolge nello spazio d’un pomeriggio in una piccola località climatica montana: protagonisti sono Francesca e Alberto. L’una è – così l’intende il Poeta – “una calma e bella, figliola come ce n’è tante: che portano scritto in fronte la vocazione di prender marito e mettere al mondo dei bambini”. L’altro è “un simpatico giovanotto, come ce n’è tanti, la cui singolarità consiste nel non aver nulla di singolare, nell’essere un buon ragazzo qualunque, senza pose (ma tutt’altro che sciocco). Insomma, una ragazza e un giovanotto che sono come la maggior parte dei giovanotti e delle ragazze”. Francesca vorrebbe far capire ad Alberto che gli vuole un gran bene, lo circonda di gentilezze, moine, attenzioni, gli parla trepida e timida del suo sentimento, senza osare di essere esplicita, ma si trova dinanzi un uomo assente, distratto, assorto in altri sogni e in altre mete, avido d’un buon posto, d’una bella carriera, di molti quattrini e di amori facili, golosi e cupidi. Alberto non sente quello che lei dice: non raccoglie delle sue parole che la musica, ma il significato gli sfugge. Pare un allocco ed è invece un egoista: egli pensa soltanto a sé stesso. Ed è questa la verità interessante della commedia. Egli è opaco nel suo egoismo: è convinto che le donne lo adorino e che con esse egli può fare quello che gli pare. Ma Francesca per lui non è neanche una donna: è come un amico. Il suo carattere è disegnato con evidenza. Deve al suo carattere il grosso guaio dove s’è cacciato. Il giovanotto, dongiovanni tanto impenitente quanto inesperto, ha allacciato, infatti, una piccante relazione intima con una troppo solitaria, belloccia vedovella, il cui fratello, venuto a conoscenza dell’amorazzo, vuole e pretende, subito, una spiegazione e una riparazione. Perciò, armato d’ira, arriva al paese delle vacanze di Alberto e lo cerca (questi, intanto, è in gita, in compagnia di Francesca). Lo insegue. E sta per agguantarlo quando la ragazza, gelosa e risentita, spinge l’amato in un baratro. Una tragedia? No, certo: il burrone non è che un grosso buco irto di pruni. Il gesto, tuttavia, non è stato inutile: con esso, la ragazza ha dimostrato, in maniera irrefutabile, il proprio affetto per il cocciuto Alberto. Il quale, infine, comprende e tenta di riappacificarsi con la sua innamorata. Ma ella se n’è fuggita. I due si ritroveranno più tardi, in una stanza rustica, nella casa di un contadino. Come c’è da aspettarselo, l’idillio si conclude con un lieto fine, tra lacrime e sorrisi. Nonché con un lungo bacio nascosto agli occhi dello spettatore dallo scender veloce del sipario.
Notte in casa del ricco (1942), rappresentata all’”Eliseo” di Roma il 15 novembre 1942 dalla compagnia di Renzo Ricci, del cui cast faceva parte l’attrice recentemente scomparsa Eva Magni (1906 – 2005), fu definita dalla critica “una tragedia moderna” che procede sullo schema classico delle colpe del padre che ricadono sul figlio, sicuramente uno dei drammi migliori di Betti. In una stazioncina di montagna, isolata fra i monti delle Marche, dove la linea fa bivio – e non v’è marchigiano che non vi riconosca la stazione di Albacina, che Betti sicuramente frequentava nei suoi viaggi da Roma a Camerino e ritorno – due uomini per caso si incontrano. Un’ignota, fatale esigenza li induce a confessarsi l’uno all’altro. I due sono: Mauro, un “vecchio giustiziere”, venuto da lontano a pareggiare la partita con il suo amico Valerio, che lo aveva un tempo tradito, e Tito, servo di quest’ultimo e amante della di lui figlia Adelia, dalla quale è tuttavia disprezzato. Mauro e Tito – siamo al secondo atto – si ritrovano nella casa di Valerio, quando questi sta per ottenere l’ambita carica di assessore e sta per promettere in sposa a un giovane della città la figlia, suo unico bene. Mauro prepara la vendetta e propone un baratto terribile: le carte del processo, provanti la colpevolezza di Valerio, in cambio della mano di Adelia. Ciò che deve inevitabilmente accadere, avviene: Valerio prega Tito, il famiglio, di far sparire quelle compromettenti cartacce e Tito, approfittando del favore richiestogli e credendo di potersene poi valere per ottenere la mano di Adelia, brucia i documenti e lo stesso Mauro in un solo orrido rogo. Ma quando il giovane avanza il vile ricatto a Valerio, e questi è impotente a ribellarsi, Adelia, avvelenandosi, si libera per sempre dall’infame nodo di lussuria, dal vizio che la teneva legata al servo: “Avevo errato, signor padre. Dovevo scontare… e dare un termine a questi mali. Ora non sarò più causa… di dolore… a nessuno”, sono le sue ultime parole, prima che la morte le punga l’addoloratissimo cuore.
Un solo interrogativo per chiudere: passerà anche il 2012 senza che nessuno si accorga che Betti è ancora patrimonio inestinguibile delle nostre lettere e della città che gli ha dato i natali?
N.b. Le trame dei drammi sono ricavate da F. COLOGNI, Ugo Betti, Cappelli ed., Bologna 1960
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