Vajont, 50 anni dopo
La testimonianza di un alpino

9 OTTOBRE 1963 - 9 OTTOBRE 2013. Giancarlo Sagratella, di Camerino, partecipò alle prime operazioni di soccorso: "Estrarre dal fango decine di corpi e poi vedere centinaia di cadaveri allineati dove fino a poco prima sorgevano le loro case è un ricordo indelebile che non mi ha fatto dormire per molte notti e che ancora oggi rivedo sempre con grande pena davanti ai miei occhi". Il racconto di altri due ex alpini marchigiani, Sesto Fiocchi e Luigi Gezzi, che hanno vissuto la tragedia di Longarone

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1)Del paese di Longarone rimane solo la disperazione di questo ragazzo in primo piano

Del paese di Longarone rimane solo la disperazione di questo ragazzo in primo piano

 

Giancarlo Sagratella mostra una rivista dell’epoca con le cronache della tragedia

Giancarlo Sagratella mostra una rivista dell’epoca con le cronache della tragedia

 

di Alessandro Feliziani

In quella tarda serata del 9 ottobre 1963 – era, come quest’anno, un mercoledì – il giovane meccanico di Camerino, Giancarlo Sagratella, militare nella Brigata Alpina “Julia”, stava rientrando in treno alla caserma della 155^ Compagnia Mortai, dopo aver trascorso qualche giorno in famiglia, grazie ad una delle poche licenze avute durante il servizio di leva. Mentre attraversava quel lembo di Dolomiti ad est del Piave, il giovane alpino marchigiano mai avrebbe potuto immaginare la catastrofe che si stava in quei momenti abbattendo a pochi chilometri da lui e che da lì a qualche ora sarebbe tragicamente apparsa davanti ai propri occhi. Un intero paese, Longarone, con tutti i suoi abitanti, “cancellato” dalla geografia della valle del Vajont, il fiume che ha dato nome a quel disastro, rimasto tristemente famoso. Quel che era accaduto è noto, ma per i più giovani merita di essere ricordato. Alle 22,39 di quella sera di cinquanta anni fa, una gigantesca frana di oltre 270 milioni di metri cubi di roccia si stacca dal Monte Toc e precipita sul lago artificiale da pochi mesi ultimato e riempito attraverso uno sbarramento costituito da una diga alta più di 260 metri. L’impatto solleva un’onda di 50 milioni di metri cubi d’acqua che, scavalcando la diga, si riversa a valle formando davanti a se un’onda d’urto, con una potenza pari a quella di una bomba atomica, che in pochi secondi spazza via le case e tutti i suoi abitanti. Il servizio di protezione civile, così come oggi lo conosciamo, in Italia ancora non esisteva cinquant’anni fa e i primi soccorsi – per quel poco che ormai c’era da soccorrere – furono garantiti da migliaia di alpini, presenti in gran numero in quel territorio di confine.

Alpini scavano per recuperare i corpi delle vittime

Alpini scavano per recuperare i corpi delle vittime

“Quando arrivai in caserma, poco dopo la mezzanotte – ricorda Giancarlo Sagratella, che oggi ha 71 anni e che Cronache Maceratesi ha incontrato nella sua casa a Morro di Camerino – vidi un insolito, data l’ora, andirivieni e i miei commilitoni che stavano caricando le tende da campo sui camion. Non ebbi il tempo di andare in camerata. Finite le operazioni di carico partimmo per Longarone, dove arrivammo che stava per farsi giorno. Durante il tragitto ci dissero che si trattava di soccorsi da portare alle popolazioni civili, disastrate a causa del crollo della diga del Vajont. Quando arrivammo, non vedemmo né case, né anima viva, salvo noi, altri alpini che ci avevano preceduto e Carabinieri; la diga, intatta, stava  al suo posto e la valle era un mare di detriti e fango. Conoscevo Longarone per esserci andato più volte durante il servizio militare. Quindi mi resi subito conto che non c’era più nulla.”

Come vi organizzaste?

“Eravamo impreparati a una simile catastrofe. L’ordine dei nostri ufficiali fu quello di cercare  le persone e portarle in salvo, se ancora vive.  Si scavava nel fango con pochi attrezzi e soprattutto con le mani, ma dalla melma uscivano fuori solo cadaveri, spesso trasfigurati e anche mutilati. A me capitò di trovare due dei pochissimi superstiti. Erano due bambini, di quattro o cinque anni al massimo. Li trovai uno vicino all’altro e probabilmente appartenevano alla stessa famiglia. Li sollevai da terra e gridando m’incamminai con loro in braccio per alcuni metri fin quando non li consegnai ad altri commilitoni che mi vennero incontro. Non ho mai saputo se quei due bambini siano sopravvissuti”.

Quanto tempo rimase a Longarone?

“Per diverse settimane. Tutta la mia Compagnia fu accampata con le tende nei pressi della zona del disastro e fummo divisi in squadre per recuperare i morti. Non solo dove sorgeva il paese, ma anche per diversi chilometri a valle. Ovunque si scavasse c’erano corpi, spesso irriconoscibili”.

C’erano altri maceratesi tra i soccorritori?

“Tra gli alpini della mia Compagnia no, ricordo però che dopo qualche giorno incontrai tre Vigili del fuoco giunti a Longarone dal Comando di Macerata”.

Giancarlo Sagratella con un gruppo di commilitoni nel 1963

Giancarlo Sagratella con un gruppo di commilitoni nel 1963

E’ mai ritornato in quella zona dopo il servizio militare?

“Una ventina d’anni fa andai in gita a Canale d’Agordo, il paese natale di papa Giovanni Paolo I, e data la vicinanza mi venne il desiderio di andare a vedere quei luoghi. Mi fermai a Erto, un paese vicinissimo a Longarone, anch’esso in gran parte distrutto da quella catastrofe. Entrai in un bar e non dissi a nessuno che ero stato uno dei tanti alpini testimoni delle ore che seguirono il disastro. Non ne ebbi il coraggio, sapendo anche che gli abitanti del posto non amano parlare di quel tragico 9 ottobre 1963. Ricordo che sentii una forte emozione dentro di me ed evitai di scendere dentro il paese di Longarone”.

Che cosa prova dopo cinquant’anni?

“Per noi giovani militari che non avevamo conosciuto la guerra, il disastro del Vajont è stata la prima crudele presa di coscienza con la morte. Estrarre dal fango decine di corpi e poi vedere centinaia di cadaveri allineati dove fino a poco prima sorgevano le loro case è un ricordo indelebile che non mi ha fatto dormire per molte notti e che ancora oggi rivedo sempre con grande pena davanti ai miei occhi”.

Un altro ex alpino, presente a Longarone nei giorni immediatamente successivi al disastro, è Sesto Fiocchi che abbiamo raggiunto al telefono nella sua casa nelle campagne di Amandola.

Nel 1963 – ci racconta – ero militare di leva nella 68^ Compagnia “Belluno” a Pieve di Cadore. Arrivammo con diversi camion a Longarone verso le 10 del mattino del 10 ottobre e appena sceso dall’automezzo, un capitano degli Alpini gridò: “Tu, tu, tu e tu”, indicando con il dito me e altri tre miei commilitoni. Ci fece prendere due barelle e ci invitò a salire con lui su una jeep, portandoci per un paio di chilometri verso monte fino ad arrivare davanti ad una chiesa dove erano parcheggiati alcuni camion militari. Ad un sacerdote che ci venne incontro l’ufficiale chiese: “Quanti ce ne sono? Il prete, invitandoci con un gesto a seguirlo, rispose. “84”. Dopo pochi passi ci aprì una porta e sul pavimento di un grande salone trovammo allineati 84 cadaveri. Io e gli altri tre alpini dovemmo caricarli uno ad uno sui camion che poi li avrebbero portati nel luogo previsto per l’eventuale identificazione e quindi per la sepoltura. Ricordo – prosegue l’ex alpino – che fuori la porta della chiesa, vicino ai camion, c’erano due ragazze. Una teneva in mano un bottiglione di alcool disinfettante e l’altra un bottiglione di grappa. La prima ci faceva lavare di tanto in tanto le mani e la seconda ci dava da bere per darci forza.

Giancarlo Sagratella mostra una rivista dell’epoca con la cronaca della tragedia

Giancarlo Sagratella mostra una rivista dell’epoca con la cronaca della tragedia

Le è capitato di trovare anche qualche sopravvissuto?

“No. Scavammo per giorni e giorni, recuperando solo morti. Furono giorni molto brutti. Ricordo che stentavo a credere a ciò che vedovo. Il pomeriggio del giorno prima, quindi poche ore prima della catastrofe, ero transitato per Longarone con altri alpini per andare in montagna dove c’erano delle manovre del nostro Battaglione. Quindi mentre scavavo ripensavo a quelle case che in pochi istanti erano state spazzate via. Il paese di Longarone era diventato come un grande campo arato dopo giorni e giorni di pioggia. Esperienze drammatiche impossibili da dimenticare, anche volendolo”.

Luigi Gezzi, di Montefortino, nel 1963 in servizio di leva al Battaglione Trento, 145^ Compagnia, ci racconta al telefono che per almeno quindi anni ha cercato in ogni modo di dimenticare tutti quei morti e la disperazione di tante persone che, venute da altre parti d’Italia o dall’estero, vagarono per giorni e giorni in lungo e in largo per quella valle distrutta alla ricerca di un corpo su cui piangere. “Pensavo che non parlandone con nessuno mi aiutasse a dimenticare – dice l’ex alpino – ma ogni giorno nella mia mente riaffioravano le immagini di quei giorni. Alla fine me ne sono fatto una ragione e ho capito che quel ricordo è destinato a vivere in me per sempre”.

Nel 2008, in occasione dell’Anno internazionale del pianeta terra, l’ONU ha definito la tragedia del Vajont “il n.1 dei disastri provocati dall’uomo”. Sì, provocati dall’uomo, perché – come accertato nel corso dei processi che seguirono – ciò che  accadde il 9 ottobre 1963 era prevedibile. Nel novembre del 1960 dallo stesso Monte Toc si staccò una frana di seicentomila metri cubi, lasciando una frattura che costituì la nicchia frana disastrosa di tre anni più tardi. Ogni invito della comunità locale rivolto alla società SADE ad abbandonare il progetto di riempimento del lago artificiale rimase inascoltato. Il risultato sono quei 1910 cippi allineati a San Martino di Fortogna, in quello che oggi è il Cimitero monumentale delle vittime del Vajont. Solo 703 di quei cippi hanno un nome, altri 761 solo un numero e 446 sono cippi “virtuali” perché di quei morti la catastrofe spazzò via per sempre anche i loro corpi.

***

(L’autore ringrazia per la collaborazione il presidente regionale dell’Associazione Nazionale Alpini, Sergio Mercuri e i responsabili delle sezioni territoriali, Alfonso Baggio di Macerata e Renato Caprodossi di Camerino. Le foto dei luoghi del disastro sono state tratte dalla Stampa dell’epoca.)

Giancarlo Sagratela mostra con orgoglio il suo cappello da alpino

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Dove c’era il Paese, si vedono bare allineate pronte per essere caricate sui campion militari

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