di Gabor Bonifazi
Credo che niente più dell’attimo fuggente che fissa un trattore mentre traina un biroccio possa meglio sintetizzare il passato prossimo e il passato remoto dell’attività legata alla coltivazione dei campi e meglio evocare la civiltà contadina ormai definitivamente ristretta, con i suoi oggetti d’uso quotidiano, tra le anguste mura di qualche folcloristico museo etnografico. E’ giusto quindi ricordare che tre cose sottili erano un tempo il maggior sostegno del mondo: il sottile rivolo di latte dentro il secchio, la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra e il filo sottile sulla mano di una donna industriosa che muove la conocchia. Come pure tre rumori erano segno di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte, il tintinnio di ferro di una fucina e il fruscio di un aratro (perticara) che rimuove la terra.
Queste alcune considerazioni per introdurre un argomento a me caro: “La tutela e la valorizzazione dell’architettura rurale”. Una seria tutela puntuale degli edifici agricoli che, come vedremo in particolare per le Marche, sono stati devastati negli ultimi trent’anni.
Suggerirei la formazione di un comitato tecnico-scentifico che, al di là della burocratica Soprintendenza, valuti il manufatto nel suo insieme perché è dimostrato che vincolare non significa salvaguardare e il bene deve essere valutato nel suo contesto. Infatti non va considerato solo l’aspetto storico-culturale dell’edificio ma anche quello botanico-vegetazionale e soprattutto le relazioni col paesaggio agrario storico. Insomma ci vuole una struttura leggera che contribuisca a dare indirizzi e prescrizioni.
Da un lato c’è chi vuole lasciare tutto immutato, dall’altro chi vuole ammodernare tutto con lo spirito però di aumentare le possibilità e le quantità edificatorie, senza tenere minimamente in considerazione che in questi ultimi anni i contadini sono quasi scomparsi dalle nostre campagne. La legge regionale 13/90 a me sembra che abbia sottovaluto i danni che la liberalizzazione edificatoria selvaggia potrebbe ancora arrecare al già vituperato paesaggio agrario storico, caratteristico delle Marche anche sotto l’aspetto turistico. Penso infine che dovrebbe essere inserita una qualche norma per il recupero delle case coloniche trasformate in accessori agricoli. Si raccomanda quindi di dare maggiore attenzione al recupero del patrimonio edilizio rurale, analizzando gli edifici nel loro contesto e stabilendo i tipi di intervento (ristrutturazione, demolizione, ampliamento, ecc…) con i criteri del bene culturale irripetibile.
Concludendo si dovrebbe leggere l’edificio nel suo ambiente, saccheggiato proprio nelle vallate da un’urbanistica casuale che non ha tenuto conto neanche dei distacchi stradali e che ha prodotto un’edilizia di rapina. Varrebbe la pena leggere anche la descrizione del paesaggio in chiave leopardiana di Vincenzo Cardarelli ne “Il cielo sulla città”, pubblicato nel 1939: “… A due passi da Macerata, le galline razzolano, il fieno si ammucchia odoroso intorno alle informi rovine di una città romana, Helvia Recina, le quali devono sostenere il confronto coi numerosi e monumentali pagliai sparsi nelle vicinanze. I contadini, in campagna, si sono impossessati di ogni edificio, sia pure antico ed illustre. Si ha qui il senso di una vera invasione agricola, di un assoluto predominio della campagna sulla città, come se in questo paese fosse accaduta, non so quando, una formidabile rivoluzione rurale. Il castello della Rancia, famoso per aver dato il suo nome alla sfortunata battaglia di Gioacchino Murat contro gli Austriaci, combattutasi lì attorno e detta dai marchigiani, un po’ arbitrariamente, ma con molto orgoglio patriottico, la prima Novara del Risorgimento, è divenuto, se non sbaglio, una casa colonica. E i contadini della Mensa Vescovile di San Claudio sul Chienti non intendono certo profanare la loro chiesetta romanica servendosi della parte superiore come di una soffitta o di un ripostiglio per gli attrezzi agricoli. Nobili ville, caratteristiche locande del tempo delle corriere, sono egualmente possedute, abitate, circuite da poderi che aspirano a dare un’idea del Paradiso Terrestre. Ogni fabbrica è buona da ridurre a casolare, a magazzino. E tutto è conservato a meraviglia, ai fini che ho detto. I campi sono così gonfi di vegetazione che il trifoglio in fiore trabocca, in primavera, sulle scarpate della ferrovia. Si vedono le stradette campestri, polverose e bianche come i buoi che le percorrono, salire serpeggiando, in tutte le direzioni, le vaste colline lavoratissime, dove il grano, già in via di maturare, mette dei toni divinamente stinti, in contrasto con le macchie azzurrastre di un’altra qualità di grano meno precoce, che ha, in questo tempo, il colore dell’acqua ramata.”
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Dio ha benedetto la nostra provincia; le valli del Chienti e del Potenza sono mari di biade e di foraggi; ma la nostra terra benedetta non basta a tanti: troppi emigrano, molti non tornano più. Se, invece di arricchire l’America, i nostri contadini fecondassero una colonia italiana, un rivoletto di denaro arriverebbe fin qui: e sparirebbe la pellagra.
(V. BROCCHI, I tempi del grande amore, Milano, 1944, passim.)
Complimenti Gabor, come sempre complimenti per la tua superiore sensibilita’. Ma vallo a dire ai predatori di territorio ed ai nostri politici inetti, incapaci ed indecisi se pulirsi le chiappe con la destra o con la sinistra!!!E’urgente e decisivo quello che tu proponi, per non recidere del tutto le nostre radici. Il paesaggio a noi donato e sapientemente e rispettosamente modellato dai nostri contadini, e’ intorno a noi, come bene prezioso e che credo potra’ essere l’ ultima risorsa che potra’ assicurarci un minimo di benessere, interiore e materiale. Bisogna fermare lo scempio e l’abbandono, prima che sia troppo tardi. Il risveglio delle sensibilita’ , per assumere proposte positive, deve sempre partire dal basso, cioe’ dalla gente comune. Un saluto.