di Gabor Bonifazi
Entrai per la prima volta nello spaccio di Nino nel 1960, quando via Roma finiva con la caserma dell’Aeronautica militare, mentre il sottostante ponte di Pietrella altro non era che un’arcana galleria che conduceva al podere di un contadì grossu con una grossa ernia: Neno de Pietrella. Lo spaccio era un ritrovo festoso e promanava un frammisto di odori che andavano dal baccalà al sapone di Marsiglia, la pasta era sfusa come pure le sigarette che venivano messe in bustine con la reclame delle lamette Gilette. Undici Nazionali semplici costavano cento lire. Attiguo al locale dove si vendeva un po’ di tutto c’era una grande cucina laboratorio dove Nino, a seconda della stagione, o faceva la salata o cucinava le spuntature e altri cibi particolari per i clienti della cantina contigua. Poi c’era la piccola edicola di giornali di Romolo, l’officina dei fratelli Peppe e Armando Mattioli e la carrozzeria dei fratelli Nicò e Peppe Salvatori, il forno di Pierucci, l’ingresso a casa Mancini, il negozio di generi alimentari e quello di frutta e verdura di Donatella, la figlia di Catirbittu. Altro gruppo di case con piccole botteghe al piano terra stavano allineate dopo il villino Pascucci, allora sede provvisoria della chiesa di san Francesco dove indossai per l’ultima volta la cotta da chierichetto, e di cui rimangono come testimonianza storica due piloni, due pini e il viale d’accesso. C’era la bottega di Bruno lu calzolà, quella de Gigio lu varviere e, sotto il palazzotto dei Foglia, il circolo Acli gestito da Ada, mentre dall’altro lato c’era l’officina di macchine agricole Lampacrescia. Poi, in quel caseggiato angolare alla fine di via Spalato, si trovava il laboratorio del falegname Ivo, quella di Mimma, fruttivendola preferita da Roberto Svampa, e la casa di un’anziana donna ricurva sotto il peso degli anni: Juditta de lu Gattu. Insomma, c’era tutto ciò che poteva servire ad una piccola comunità che comprendeva gli abitanti sparsi nella contrada di Collevario e in quella di Montirozzo, dove erano sorti i due quartieri popolari e popolosi di via Spalato e di San Francesco. Credo che la nostra fosse l’ultima frontiera di Macerata in stretta relazione con la campagna circostante. Nino era un personaggio tanto caratteristico quanto burbero, forse perché il 3 aprile ’44 durante il bombardamento delle casermette aveva perso la mamma Guerrina, la moglie Ines e il figlio Aldo di appena due anni. Sopravvissuto con i figli Andrea e Mariano, si risposò con Naide dalla quale ebbe altri quattro figli: Aldo, Maria, Dante detto Nino e Dolores.
Enrico Pettorossi detto Nino, prima di andare a bottega allo spaccio di famiglia, era stato titolare di un saponificio con sede in via Roma più o meno all’altezza dell’Agip, della cui insegna rimane ancora una traccia scolorita. Nino era molto conosciuto per la sua fama di cuoco e di norcino, nonché per il buon vino, ma tutta la sua maestria l’impegnava nell’invogliare gli avventori in particolari merende a base di trippa o soprattutto di spuntature. Fuori il locale c’era un bersò con tavoli in pietra e panche di legno dove le signore si potevano accomodare, mentre Andrea il primogenito cercava di ammirare le gambe e qualcosa più in alto attraverso le bocche di lupo della sottostante cantina. Tra i tipi caratteristici ricordo Ernesto, sor Pommery, Pocaciccia, Tremarella e Marino de Magnaprì. Si diceva che quest’ultimo riuscisse a cambiare senza grattare le due marce del motorino Benelli, solo dopo aver sorseggiato il bicchiere della staffa. Nelle serate d’estate arrivava l’allegra brigata di infermieri del manicomio tra cui Sergio, il fratello di Naide, e il camerata Armando Alunni, un vecchio sindacalista della Cisnal. Comunque, Nino è stato anche l’antesignano del catering. Sotto l’esercizio commerciale c’era una grotta dove venivano accatastati tavoloni, panche e casse ricolme di piatti e bicchieri e tutto il necessario per banchetti volanti. Infatti i suoi banchetti erano molto richiesti per matrimoni o per far bella figura con qualche sottosegretario di passaggio. Si cominciava all’alba a caricare dalla cantina casse di stoviglie, tavoli e cavalletti mentre la moglie Naide cucinava. La giornata dei camerieri era compensata con duemila lire, mentre le donne che preparavano i cibi e lavavano i piatti erano retribuite con mille e cinquecento lire. Nel 1958, nel cuore di una notte di ottobre, la casa dove si trovava anche lo spaccio crollò e la famiglia Pettorossi fu costretta a dividersi, cercando ospitalità in diversi luoghi di fortuna. Così Dante e Nino riaprirono la cantina in un garage di quel palazzaccio ricostruito sulle macerie della casa dove Nino aveva perso, in seguito al bombardamento, mezza famiglia.
Il 1° febbraio del 1970, quando l’attuale edificio venne ricostruito nacque il ristorante, poi ancora la pasticceria insieme a quel sontuoso bar drive-in. La vigilia di Natale del 1996 il burbero Nino se ne andò in silenzio da questa valle di lacrime e successivamente Dante, il più piccolo dei figli, da gran lavoratore qual è, riaprì sopra il bar un nuovo locale, Lu Spaccittu, forse per rievocare la tradizione della grande famiglia Pettorossi che lui ha vissuto e osservato, mentre con grande capacità imprenditoriale è riuscito a trasformare l’attività e a renderla sempre più produttiva. “Lu Spaccittu” potrebbe presto fregiarsi della “Fojetta”, il simpatico logo che segnalerà le Osterie storiche delle Marche come stabilito dalla LR 5/2011: “Interventi regionali per il sostegno e la promozione di osterie, locande, taverne, botteghe e spacci di campagna”.
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Complimenti a Gabor Bonifazi per questo regalo alla memoria collettiva .