Monica Guerritore
di Donatella Donati
Buio completo sul Colle dell’Infinito venerdì 1 luglio mentre la tiepida luce lunare proveniva dai lontani monti. Niente lampi fotografici aveva chiesto l’attrice tramite il direttore dell’Amat Santini che ha presentato lo spettacolo. La luce dei telefonini l’avrebbe deconcentrata dalla recitazione di testi poetici tutti a memoria. Silenzio rispettoso da parte del pubblico e in certi momenti c’era l’impressione di un teatro vuoto. La sommità del Colle, rifugio poetico di Giacomo Leopardi, luogo conosciuto nel mondo per aver ispirato la più celebre delle sue poesie, è stato il luogo ideale per accogliere il confronto con Dante. Monica Guerritore ha cominciato introducendoci nell’Inferno, spaventandoci, come fossero tra noi, con i misteriosi animali che gli intralciano l’ingresso e subito dopo introducendo il canto più attuale per il suo contenuto e più famoso per l’intimità dei sentimenti espressi, quello di Paolo e Francesca. Un feminicidio di altri tempi, un dramma della gelosia e dell’amore più forte della morte. L’uccisore Dante, benché al suo tempo fosse ancora vivo, lo colloca nel buco più profondo dell’Inferno, la pena più forte che un uccisore di donne meriti. Ma i due innamorati sono nell’Inferno perché hanno tradito e rotto il sacro patto del matrimonio. Vengono avanti tenendosi per mano, leggeri come piume e desiderosi di raccontare la loro storia. Al loro racconto Dante si commuove talmente che sviene. Le terzine nelle quali l’incontro viene raccontato si snodano nella recitazione di Monica ora incalzanti ora tenere e affettuose.
L’attrice nel buio del Colle dell’Infinito
L’attrice stessa si sdoppia cosicché in certi momenti sembra che a recitare siano due persone diverse, una interpretazione assai superiore a quella di Roberto Benigni che è un attore che cerca di spiegare al pubblico il percorso di Dante. L’altro canto drammatico scelto dalla Guerritore riguarda il conte Ugolino e la sua proditoria incarcerazione nella torre insieme con i figli e il nipote, dove vengono lasciati morire di fame; i figli chiedono al padre di essere mangiati perché pensano che egli imprechi ed urli per la fame e non invece per la sofferenza e l’ingiustizia di quell’azione e la morte li coglie uno dopo l’altro. Con estrema delicatezza l’attrice adombra il sospetto più volte da qualcuno espresso che Ugolino si sia cibato alla fine forse del cervello dei poveri ragazzi. Un’interpretazione maligna che la storia e la forza morale di cui Ugolino era possessore rifiutano completamente. Momento magico l’ uscita dall’Inferno e l’inizio della salita sul Monte Purgatorio dove si ritorna ‘a riveder le stellè . Dopo altre citazioni poetiche di autori contemporanei, appena accennate quasi per non tradire l’atmosfera tragica della divina Commedia, forse per mettere in evidenza la grande distanza tra il grande e il piccolo, l’attrice conclude con la recitazione dell’Infinito, nella maniera più naturale e piacevole, usando il recanatese di Leopardi, che è quello elegante e piano dell’italiano più grande e severo. Nessun cedimento alla retorica, nessuna ricerca di interpretazioni originali spesso inaccettabili e rumorose, ma un tono quieto che mette in evidenza quel femminile che fa parte anche della personalità di Giacomo. La scelta della musica di Wagner come leit motiv di tutta la recitazione è piaciuta a tutti ed è stata l’occasione per avvicinare la musica del grande tedesco alla poesia italiana.
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veramente il conte Ugolino non imprecava né urlava per niente:
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.
Io non piangea, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”.
Perciò non lacrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ‘l fessi per voglia
di manicar, di subito levorsi
e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia”.
Queta’ mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?