di Maurizio Verdenelli
Se c’è una cosa che prima ancora della pasta risorgimentale ha unito l’Italia è stata la trippa. Regina delle frattaglie bovine che conquistarono i migliori palati europei sin dal Rinascimento, nella Parigi del ‘600 erano apprezzate più delle bistecche. Parola del dottor Gianni Cammertoni, veterinario e direttore del Mattatoio comunale di Macerata. Tuttavia sull’antica tradizione del quinto quarto, o per intendersi ancora sulle popolarissime beneamate sopracitate frattaglie rosse e bianche (spuntature marchigiani, ciarimboli nell’anconetano, stigliole in Sicilia, torcinelli in Abruzzo e Molise, fegatelli in Toscana ed Umbria, cordula in Sardegna e via elencando) incombe lo spettro della crisi. Possibile? Anche su questa che è per eccellenza la ‘cucina povera’ d’Italia? Possibile.
“A Macerata resistono tre, quattro negozi e macellai a tenere alto il nome e la qualità delle carni locali ma presto anche loro saranno costretti ad alzare bianca ‘sconfitti’ dalle regole del mercato che impongono prezzi più bassi e carni importate che, come quelle americane, riescono a stare nei nostri ormai ridotti portafogli” sottolinea amaro Cammertoni. E qualcuno dalla sala, argomenta: “Carni che vengono anche e soprattutto dal Belgio e dagli altri Paesi del centro europa come i maiali dall’Olanda”.
Siamo nel ‘teatrino parrocchiale’ di Piediripa, ‘tempio’ rituale della Proloco che annualmente qui presenta ‘Lu calendariu’ a cura di Betto e Lorenza Salvucci. Stavolta il tema è davvero appetitoso ed intrigante: Il quinto quarto. Tratto integralmente da una ricerca ‘formidabile’ dell’Accademia della cucina italiana che qualche anno fa aveva ‘consigliato’ alle sue Delegazioni approfondimenti su un tema che l’integrazione sta facendo scomparire. Addio rognone, addio coda alla vaccinara, addio pajata che la leggendaria romanissima ‘sora Firminia’ cucinava al Testaccio nell’osteria ‘cult’ dell’Olmo dopo che papa Leone XII, correva l’anno 1890, aveva concesso di macellare le interiora di vacca, pecora ed agnello. Così come pure a Venezia dove sarebbe nato il celebre fegato con cipolla. Ora sull’aureo ‘rinascimento’ dell’abbacchio, della ‘corata’, dei rigagli, della ‘testina d’agnello’, della polentata al sangue, delle animelle –ottime quelle d’agnello per i vincisgrassi- del polmone, del cuore, milza, fegato, lingua trattate con olio, carota, cipolla, aglio (e basta, dice il giornalista gastronomo Ugo Bellesi) sta per calare il tramonto che coincide con quelle delle ‘vergare’.
Le mitiche cuoche Alba, Bruna, Silvana, Lalla ed Elena che hanno preparato le ricette del calendario
Good bye fritto misto, le frattaglie di manzo in umido, au revoir dolcissimi pezzi rosolati dolcemente. Addio panino al lampredotto fiorentino, al ‘bollito’ nobile ed altezzoso delle ricche cucine del Nord, addio alle braci robuste e ‘proletarie’ del sud. Bolliti, arrosti ognuno a segnare con il quinto quarto un confine ideologico e di classe di un’Italia pur unita da quello. E nelle campagne maceratesi ‘a rvderci’ alla coda, utilissima per ogni piatto, che spettava al fattore e la trippa al contadino che sgobbava tutto l’anno 24h. “Adesso bisogna stare attenti: se la trippa, di natura, scura è chiarissima significa che l’hanno trattata con gli sbiancanti. Tutto è mutato da vent’anni a questa parte quando è appunto cambiato il pasto del vitellone che ha poi contratto l’acidosi ruminale” avverte Cammertoni.
“Eppure tutte le ricette squisite del quinto quarto servirebbero a mangiare ancora benissimo e a pochi soldi: basterebbe dedicarsi alla cucina quattr’ore la mattina e comprare nel negozio fidato” dice ancore il direttore del Mattatoio con aria artatamente ingenua. Tuttavia se non le frattaglie, ‘i resti’ degli animali macellati hanno ancora grandi apprezzamenti. Da parte di africani e cinesi che a Macerata fanno la fila al mattatoio per prendersi peni e testicoli di tori, la pelle della testa, musetti dentati, metatarsi e metacarpi. “Vanno pazzi per questi pezzi –dice stupito Cammertoni- e pensare che noi dovremmo pagare per smaltirli…”.
Prima di lui era stata la volta del collega Ugo Bellesi. Il suo libro sulle ‘frattaglie’ può sin da adesso annoverarsi tra quelli dei una ‘storia maceratese che fu’. “E che va assolutamente preservata” dice Ugo, delegato provinciale dell’Accademia della Cucina italiana. “E’ un lineamento profondo identitario che affonda le radici nei secoli. Bene ha dunque fatto la Proloco a volere questo lavoro come ‘lumen’ per il percorso dei prossimi 12 mesi. Per ricordarci ‘com’eravamo’ felici in quelle cucine fumiganti, pieni di sorrisi di bambino, di cose buone ed utili, dove ‘non si sprecava nulla’ e dove il ‘pronto subito’ in confezione di carta ‘alimentare’ non esisteva. E dove le ricette si tramandavano oralmente, non c’era la Tv o il web a proporle al minor prezzo -e sempre minore qualità. “Per la carne dei vostri figli, dagli 8 fino ai 24 anni, servitevi dal vostro macellaio di fiducia” dice inarrestabile, guardando fisso l’uditorio, il veterinario. Ma è già tardi. E’ ora di pranzo. Alle spalle di tutti ci sono vincisgrassi, lingue cucinate con salsetta verde, coratelle, rognone, insaccati, i mitici dolci della nonna, trippa, rognoni, insaccati. E le ultime parole di Cammertoni si perdono: “Allevare una mezzena a Macerata significa doverla vendere per un reddito equo a 6 euro al chilo, il doppio sul mercato della grande distribuzione”.
C’è solo il tempo, tra gli assaggi di un banchetto ‘luculliano’ (a cura delle mitiche ‘vergare’ della Trebbiatura) per un brindisi natalizio e, da parte del presidente della proloco Igino Paolucci, della segretaria/direttrice Pina Ramaccioni e di Enrico Scoppa, quello di snocciolare i prossimi appuntamenti. Eccoli: 27/28 dicembre e 5/6 gennaio il Canto della Pasquella, l’Epifania, e sottolineato tre volte, il 15 febbraio, il 25. Carnevale Maceratese. Un appuntamento fatidico che la Proloco vuole celebrare con una madrina eccezionale: una star che tutta l’Italia di sé fa innamorare ma … sul cui nome (doppio) e cognome vige un rigorosissimo top secret.
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con lloro è anche la fine dei piccoli allevamenti locali.
Se i locali cominciassero a vendere direttamente e a prezzi onesti probabilmente la gente si adatterebbe volentieri ad acquistare anche le carni ‘inusuali’ purché allevate a km 0 e con mangimi bio. Però, senza una politica di prezzi più ‘accorta’ da parte di chi fa vendita diretta, la gente continuerà a preferire i supermercati…
In ogni caso e’ bene ridurre il consumo di carne, soprattutto rossa, in quanto pare sia forte causa di tumori vari.
Purtroppo molto vero tutto ciò che ha detto il dottor Cammertoni. In nome della qualità e salubrità della carni oggi mangiamo solo quelle di filiera controllata ovvero animali, che in nome del profitto, sono necessariamente trattati dalla nascita fino alla macellazione con dosi massicce di sulfamidici e antibiotici con contorno di mangimi iper proteici per consentire un rapido accrescimento. Tutto ciò, benchè regolare per legge, va a discapito della qualità e del gusto penalizzando ovviamente quelle poche aziende che allevano gli animali come avveniva una volta. E’ ovvio che tenere in stalla un bovino 5 o 6 mesi in più agevola la qualità e la bontà delle carni a discapito però dei costi che lievitano, tanto da far aumentare il prezzo finale al consumatore da rendere questa pratica di allevamento non competitiva. Una domanda: Sono così salubri le carni di animali allevati in maniera così intensiva? io personalmente preferisco diminuire la quantità e cercare carni veramente genuine.