di Filippo Davoli
C’è una frase di Pierre Emmanuel che mi sta particolarmente a cuore, e che recita così:
Il programma culturale più serio non può fare altro che preparare, come un calco, le condizioni necessarie a raggiungere quell’ultimo traguardo che è la scoperta misteriosa dell’essere.
Un calco. Come il significato del San Giuseppe che sta in cima a una colonna nella cattedrale di Autun, di cui scrive parole esemplari il francese Christian Bobin:
Sul volto scavato di stupore di quest’uomo, scorgo la meraviglia della nascita, molto meglio che a guardare il bambino stesso.
La cultura, le sue manifestazioni; l’arte, le sue espressioni; sono tutti “canti di ritorno” che indicano una ricognizione possibile, una strada percorribile per arrivare al cuore delle cose, di noi stessi, del nostro tratto, nel disegno apparentemente casuale del tempo e dello spazio universali. C’è una domanda che ha sollevato l’amico Andrea Ferroni nel suo blog qualche settimana fa: “la verità è un punto d’arrivo o di partenza?” Nonostante l’avvincente quesito, a me pare di non poter rispondere se non per quella nostalgia, intrisa di destinazione e non solo di passato, che è propria del nostro DNA. Un “sàpere” più che un “sapére”. Una sapienza (sàpere = essere sapidi, essere sale) che è propria della carne, ben più di una conoscenza dell’intelletto.
Che voglio dire? Semplicemente questo: che non porrei la questione in termini temporali di prima e dopo, essendo l’essere (e dunque la verità) al di là di spazio e tempo. Significando, cioè, una qualità propria di sé e della nostra essenza umana. Un presente sempre antico e sempre nuovo, per così dire. Qualcosa che ci riguarda costituzionalmente, nonostante i rumori e le confusioni della nostra contemporaneità. Qualcosa che si può smarrire e che prelude, inevitabilmente, ad una malattia dell’anima, ad un dolore non certificabile se non nel reperimento di quella stessa traccia, di quello stesso senso. Ecco, allora, la funzione dell’arte e della cultura così come la intendiamo noi di “Quid Culturae”: una serie di occasioni dialoganti e illuminanti, l’una l’altra e, tutte insieme, noi che le incrociamo sulla nostra strada. A livelli di comprensione diversi, ma comunque tutti nella possibilità di ricavarne un beneficio, uno sprone, un rovello. Continuava Bobin, a proposito del San Giuseppe di Autun:
E’ dunque questa la paternità, è dunque una cosa semplice e misteriosa come questa: porsi al servizio di ciò che accade senza pretendere di esserne il padrone, essere soltanto l’intermediario tra il bambino e l’invisibile.
Parafrasando la conclusione qui sopra, la nostra funzione dovrebbe essere (e vorremmo che fosse) quella di intermediari degli intermediari. Un trait d’union utile non solamente a un’informazione più o meno dettagliata, quanto piuttosto alla ricognizione possibile tra origine e destinazione del percorso di ognuno.
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Filippo, tutto giusto… Solo un pò meno cristianocentrico 🙂
Sono felicemente cattolico e non gnostico, perché reputo fondamentale l’incarnazione di Cristo. In un tempo preciso, in un luogo preciso, in una carne e una storia precisa. Con questo, voglio dire che non posso snaturarmi: ho elaborato, nel tempo – mediante una riflessione il più cruda e onesta possibile -, una serie di punti fermi (o, quanto meno, più attendibili di altri) che, al confronto con colleghi, reggevano perfettamente, nonostante essi partissero da un luogo, un tempo, una storia e una carne totalmente diversi dalla mia.
Credo, cioè, che si possa ancora parlare di verità: e che questo sia opportuno e bello farlo, verificarlo, quando le interpretazioni che diamo agli eventi della vita sono coincidenti con quelle che provengono da ambiti e riflessioni di matrice diversa, quando non addirittura opposta.
Come scrivi, tu? “Tutto giusto”. Bene, se è tutto giusto anche per te che non provieni assolutamente dalle mie fila, che problema ti dà se il mio punto di partenza è cristocentrico? Siamo onesti (intellettualmente): chiederesti mai a Sartre di essere un po’ meno nichilista?