Avete mai visto un violinista appollaiato sul tetto intento a suonare, a rischio della pelle, le sue struggenti melodie? Sicuramente no, ma in teatro ciò è possibile. Ne sa qualcosa chi ha assistito, nell’ambito del 45° Festival Macerata Teatro, all’esibizione della Compagnia «Gli amici di Jacky»di Genova che ha messo in scena il musical Il violinista sul tetto, tratto dai racconti di Sholem Aleichem, forse il più noto tra gli autori classici yiddish, vissuto in America nella seconda metà dell’800. La sceneggiatura di Joseph Stein, basata sul libretto di Sheldon Harnick, si avvale delle musiche composte da Jerry Bock. Il violinista sul tetto ha ottenuto un enorme successo di pubblico. Basti pensare che a Broadway ha superato l’ambito traguardo delle 3000 repliche. L’originale titolo dell’opera si ispira al pittore di origine ebraica Marc Chagall che ha raffigurato spesso nei suoi quadri un suonatore di violino. Questo strumento è particolarmente amato nel mondo yiddish, come del resto il clarinetto. Entrambi hanno una «voce» particolare, dai toni talvolta struggenti, accorati, che ben esprimono la condizione del popolo ebraico, con i suoi momenti di sofferenza e malinconia ma anche di felicità e gioia.Inoltre, sono di minimo ingombro, facilmente trasportabili anche da parte di chi, periodicamente scacciato dalla sua terra, deve avere sempre la valigia pronta e “il berretto sul capo”, come dice il protagonista, per raggiungere luoghi più accoglienti e sicuri. È la metafora del popolo ebraico, per secoli condannato ad una diaspora senza fine. Un popolo sempre in condizioni precarie, in equilibrio instabile, proprio come lo spericolato violinista appollaiato sul tetto.
La vicenda ci porta nell’immaginario shtetl di Anatevka, minuscolo villaggio nella parte occidentale della Russia imperiale, dove vive il lattaio Tevye con la sua famiglia composta di sole donne, moglie e cinque figlie. Siamo nel 1905. Gli ebrei russi hanno il permesso di abitare stabilmente in quella zona ben delimitata e ai margini dell’impero fin dal 1791 per volere della zarina Caterina II e possono uscirne solo con particolari autorizzazioni delle autorità. La comunità di Anatevka vive in assoluta povertà, al limite della sussistenza. Il suo futuro appare decisamente incerto, tuttavia i suoi membri, popolo di tradizioni, di speranza e soprattutto di incrollabile fede, sanno trovare in quella miserevole esistenza momenti di grande tenerezza e tonificante gioia. Il povero Tevye lavora alacremente, trascinando il suo pesante carretto di villaggio in villaggio, ma è a suo modo felice. È contento di quel poco che ha e confida in un futuro comunque migliore, ma ad un tratto vede vacillare il suo ruolo di capo famiglia: le tre figlie più grandi si sposano non rispettando le antiche tradizioni del villaggio e senza il consenso paterno. Non seguono più nemmeno i suggerimenti e le proposte matrimoniali di Yente, la vecchia e saggia sensale, ma ascoltano soltanto i loro personali sentimenti. Addirittura Chava, la terza figlia, sposa un giovane cristiano! Roba da anatema! Tutto ciò a noi appare oggi più che normale, scontato, ci mancherebbe altro, ma dobbiamo rapportarci alle usanze vigenti nella comunità di Anatevka, in quell’inizio di XX secolo. Questa «novità» turba non poco il buon Tevye che non sembra cogliere il segnale del rinnovamento in atto che colpirà inesorabilmente lui e la sua gente. Nel contempo, l’orizzonte per il popolo ebraico si fa sempre più fosco e foriero di provvedimenti dolorosi che si materializzano nell’editto con il quale lo zar decreta l’espulsione dall’impero degli ebrei: sono costretti ad abbandonare in fretta ogni loro avere e trasferirsi altrove. Molti di essi scelgono l’America, nuova terra promessa, e anche Tevye li segue, in compagnia della moglie e delle due figlie più piccole. Ancora una volta il buon lattaio russo veste i panni dell’ebreo errante.
A prima vista, la storia narrata sembrerebbe poco adatta al genere «musical», con i suoi temi che fanno pensare più a un dramma che ad una commedia brillante e vivace, come Cantando sotto la pioggia o Sette spose per sette fratelli e tante altre. Ma Il violinista sul tetto, messo in scena dalla Compagnia ligure con la regia di Paolo Pignero, scalza il luogo comune musical=teatro leggero. Il violinista narra una storia che fa riflettere lo spettatore, ma non per questo è priva di momenti di ironia, sarcasmo e garbato umorismo. Qualunque «storia» può essere proposta in forma di musical, purché abbia qualcosa da raccontare, accompagnato da buona musica e valide coreografie originali. Come nel caso de Il violinista sul tetto. Interprete principale è Pietro Barbieri, magnifico e convincente nel ruolo di Tevye. Fin dalle prime battute mette in luce una sicurezza sorprendente. Si muove con naturalezza, canta con buona voce e cattura immediatamente l’attenzione del pubblico. Insomma, mostra subito una padronanza assoluta della scena. Assolutamente positiva la sua esibizione, ma bisogna dire che anche gli altri componenti del cast danno il loro importante contributo per il successo finale dello spettacolo, senza distinzione di ruolo.
Il testo, nella traduzione curata dallo stesso Barbieri, arriva al pubblico e in alcuni frangenti la commozione si percepisce nell’aria. Le coreografie,eseguite da un affiatato gruppetto di giovani elementi e accompagnate da musiche klezmer, sono di Paola Grazzi. Le scene, ridotte al minimo ma funzionali, sono di Francesca Saitta mentre i bei costumi portano la firma di Anna Alunno. Siamo grati agli organizzatori della manifestazione per aver portato alla ribalta del «Lauro Rossi» una Compagnia nuova, ben strutturata e artisticamente di alto livello, diretta da un valente regista.
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati