A Macerata va di moda
cancellare le impronte

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liviabella

di Filippo Davoli

Con la preoccupazione dei ladri di professione, si direbbe. Altrimenti non si capisce quale calcolo infausto abbia potuto animare, nel corso dei decenni, proprietari e amministratori di Macerata, tesi tutti – di generazione in generazione – a cancellare le impronte del passato in favore di pessime idee presenti e future. Riuscendo a peggiorare, di volta in volta, l’assetto e l’immagine della città.

Di esempi ce ne sono a iosa: da quelli macroscopici (il Palazzo degli Studi, quello delle Poste e la Galleria del Commercio) a quelli di media entità: i negozi, ad esempio. Una bella tradizione del centro storico vedeva apparire vetrine in stile liberty, rigorosamente in legno e specchi, come ancora possono ammirarsi nella piazzetta Cesare Battisti (onore e merito all’orafo che giustamente se ne fa vanto), in Corso Matteotti (si tratta di un negozio che oggi ospita un negozio di maglieria), in Piazza della Libertà (proprio sotto le logge del municipio). È vero che al principiare degli anni ’60 c’era – forse in forza del boom – lo slancio a chi rinnovava di più: uno dei primi a commettere il fatale errore in città fu Ettore Pompei, la cui meraviglia di bar possono riconsegnarci solamente le foto conservate dalla figlia. Cosa avremmo dato per raccontarlo a colori a figli e nipoti, invece di rievocarlo nei ricordi o nei rimpianti in bianco e nero.

Sadori

Tuttavia, ancora oggi la situazione in Corso della Repubblica è a rischio: con buona pace dei concorsi intellettuali per rianimare il passeggio degli umani, quello dei volatili ha invece compromesso diverse attività, tra cui quella che trovava locazione proprio all’interno di un altro gioiello liberty, l’allora “Modisteria Sadori”; non c’è da stare allegri se, a pochi metri di distanza, un altro gioiellino – come la vetrina dell’indimenticato Pietrarelli – ha subito lo sventramento e l’oblio.

Ricordo poi quando – per un mistero (o per un delirio) – al posto dei lampioncini d’epoca apparvero quelle orrende palle in plexiglas che ancora devastano viuzze e vicoli con la loro appariscenza fuori luogo: un attentato bello e buono a uno stile e a un gusto che contemporaneamente altri paesi, nemmeno piccoli, del circondario, sviluppavano con crescente ritorno d’immagine e di gradimento. Qui no: una partita di palle ebbe la meglio. L’estate appena passata, poi, ho visto ricomparire transenne in ferro battuto con su lo stemma civico: bruttine. Non foss’altro perché manifestamente moderne: “rifatte”, si direbbe in ambiente antiquario. Pazienza… Uno che abbia osservato, in Via S. Maria della Porta, la lapide che ricorda i natali di Lino Liviabella sulla facciata dove il portoncino è murato, capisce che in questa città non ci si può stupire di nulla.



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